L’avvocato e gli ADR: profili deontologici e compenso.

Intervento al convegno su ADR.
Appunti su: L’avvocato e gli ADR: profili deontologici e compenso.
Giungo alla conclusione di quattro relazioni molto interessanti ed impegnative, quindi con un compito molto arduo, concludere altrettanto degnamente, già di per sé molto difficile, cercare di non perdere la residua attenzione degli ascoltatori e non sfiancarli.
Per guadagnare tempo e risparmiare energie, darò per scontato il dettato normativo e siccome penso che lo scopo di questi incontri sia anche e soprattutto quello di stimolare riflessioni, cercherò di mettere in evidenza cosa ci si potrebbe/dovrebbe aspettare da noi avvocati dal punto di vista della deontologia e dei compensi di fronte a questa che è l’ennesima sfida per la nostra professione.
Posto che, lo dico con amarezza, non siamo mai (sinora) stati in grado di anticipare i cambiamenti e poi quindi li abbiamo subiti nel peggiore dei modi, l’auspicio è che questa volta, visto che dipenderà ancora di più da noi, riusciamo a cogliere l’attimo che si sta avvicinando prima che sia tardi, perché rischiamo che per molti di noi possa diventare esizialmente tardi.
Ebbene, con grande ritardo rispetto ad altri paesi e a molta parte della dottrina, anche il nostro ordinamento si sta avviando ad affidare (nelle intenzioni e negli auspici, se non nelle ambizioni) una consistente parte della risoluzione delle controversie non più alla magistratura statale, ma ad una alternativa (non amo particolarmente l’espressione giustizia privata o privatizzazione della giustizia, perché si presta ad essere male interpretata, almeno sino a quando non si sarà stati in grado di spiegare bene quale sia l’esatto significato di questa locuzione) e per ora poco importa che lo scopo sia stato, nemmeno troppo velatamente, quello di poter (nelle intenzioni) cancellare dai ruoli una consistente parte dei giudizi, cosicché gli altri (ancora negli auspici) siano più rapidi e statisticamente pesino di meno, perché il punto è che (finalmente io dico) ci viene, a noi avvocati, affidato il compito di risolvere le vertenze facendo a meno dei magistrati statali.
Mi chiedo se riusciremo a liberarci di questa sorta di sindrome di Stoccolma, per cui odiamo/amiamo i nostri sequestratori, che sarebbero i magistrati statali, chissà; io non credo, almeno per ora, per una questione culturale e generazionale, ma confidando proprio sulle nuove generazioni, forse, viste le spinte fortissime che stiamo subendo, forse potremo farlo.
Le spinte ancora una volta non sono interne, ma esterne e ci stanno trascinando, nostro malgrado, e sono il continuo impoverimento della professione, l’evoluzione tecnologica che presto, prima di quanto crediamo, ci soppianterà in molte delle nostre funzioni, nelle nostre abilità, superandoci per efficienza e economicità, la nostra già richiamata rigidità come categoria e la sempre maggiore richiesta di rapidità nel risolvere i problemi.
E certo l’arbitrato ha caratteristiche interessanti per farlo preferire alla soluzione giudiziaria dei contrasti: sono assicurate infatti – o dovrebbero essere assicurate – la riservatezza, la comprensione precisa degli accordi intervenuti o dei nuovi accordi prospettati, la durata ragionevole dei giudizi, laddove, per contro, le spese sono sempre state ingenti e ciò ha allontanato l’idea di utilizzarlo in forma ampia, ove non intervengano limitazioni o correttivi.
E quindi la nuova sfida che secondo me l’avvocatura deve sperare di vincere è proprio quella di convincere noi stessi, ma poi tutti gli altri, i nostri clienti, o assistiti che dir si voglia, che il metodo migliore per risolvere una vertenza non è quello di correre in tribunale, in senso lato, ovviamente, ma di affidarsi a professionisti che di lavoro fanno quello, ovvero studiare e risolvere le vertenze secondo diritto, ovvero gli avvocati.
Avvocati che assumeranno di volta in volta il ruolo di difensore e o di decisore, di arbitro appunto, che deciderà autoritativamente come autorità terza.
Perché solo una giustizia (alternativa, se non vogliamo chiamarla privata) competente, celere, efficiente ed organizzata, può soddisfare quella domanda di giustizia che il mercato e anche e soprattutto la società richiedono ed assicurare un livello stabile (e non occasionale) di qualità del lodo, il cui esito sia “prevedibile” per la parte che ha ragione, sì da divenire un credibile punto di riferimento per gli operatori, costruendo nel tempo quel (necessario) rapporto fiduciario con il tessuto sociale, imprenditoriale e finanziario.
È fuori di dubbio che questa trasformazione culturale (ma ora anche normativa) ci imporrà ancora una maggior attenzione alla deontologia, dal momento che avremo accanto a maggiori poteri (citando un grande autore contemporaneo), maggiori responsabilità.
Dovremo allora imparare ancora meglio e di più a conciliare quel che Danovi definisce il dovere della doppia fedeltà, verso il cliente e verso l’ordinamento forense, dove quindi ancora più forte dovrà essere per l’avvocato la spinta a tutelare i principi che promanano dall’ordinamento per assicurare la giustizia. Non potremo fare, come facciamo adesso (volenti e o nolenti) di “affidarci” ad un giudice, dovremo assumerci su di noi anche questa responsabilità, che a mio modesto giudizio, è anche (stata) sino ad adesso una delle ragioni per le quali l’arbitrato nella nostra cultura giuridica ha incontrato tanta resistenza e quindi non ha avuto grande fortuna, a meno che questa resistenza non fosse annullata dalla spinta economica; fino ad ora solo se il gioco valeva la candela, si potrebbe dire, si ricorreva all’arbitrato, mentre da oggi invece, come vedremo, dovrà accadere sempre di più e anche quando la spinta economica potrebbe quasi non esserci, ma proprio per perseguire la tutela dei principi dell’ordinamento di assicurare la giustizia.
E allora in quest’ottica l’avvocatura dovrà, a mio giudizio, farsi carico, non solo con l’arbitrato, ma anche con gli altri sistemi di ADR, di amministrare la giustizia per il fine sociale ineludibile che come organi indispensabili, non lo dimentichiamo mai, dell’amministrazione della giustizia, abbiamo.
E guardate che non potremo sottrarci, perché come accennavo tra non molto in gara numero di vertenze saremo soppiantati da sistemi di intelligenza artificiale, adeguatamente guidati, in grado di offrire (e qui sta il punto) alle parti contendenti soluzioni, ovvero decisioni, prevedibili in brevissimo tempo e con costi contenutissimi.
Non è uno scenario fantascientifico quello nel quale grandi studi, magari in società con soci non professionali (per l’orrore dei nostri vertici), avranno acquisito questi sistemi e potranno così attirare la risoluzione delle vertenze, non solo con un accordo, ma soprattutto con una decisione data autoritariamente secondo diritto da un giudice arbitro che si sarà avvalso per una prima parte del programma e poi vaglierà la decisione in tempo assi breve e con costi, ripeto contenuti.
E quindi oggi ci troviamo (forse) al bivio (l’ennesimo) tra cambiare e (in parte) soccombere; l’avvocatura dovrà conciliare da una parte la necessità di tutelare la dignità della professione e dall’altra quella di garantire l’accesso alla giustizia dei propri assistiti difendendoli, ovviamente, difendendo le loro ragioni, ma collaborando al sistema di risoluzione, rendendolo efficiente, cercando di raggiungere la soluzione secondo diritto con una nuova assunzione di responsabilità.
Io credo che l’avvocatura dovrà impegnarsi perché l’arbitrato divenga un sistema stabile e accettato dalla società, per l’avvocatura stessa, perché vorrà dire che vi sarà lavoro, è inutile negarlo, per più colleghi, e per la società, perché avrà un nuovo organo di soluzione altrettanto valido della magistratura statale con grande giovamento per i tempi e forse nel medio lungo periodo anche più economico o di pari impegno economico, ma con maggiore efficienza e di maggiore qualità.
Dal punto di vista deontologico quindi declinando l’articolo 10 del nostro codice con un forte richiamo all’articolo 2 della nostra carta costituzionale, avendo ben presenti gli inderogabili doveri di solidarietà politica, economica e sociale, l’avvocatura dovrà contribuire, anche per sua propria sopravvivenza, quantomeno di una parte di essa, al consolidamento dell’arbitrato in Italia.
E siccome la scarsa efficienza talvolta è dovuta alle condotte delle parti, è necessario, imperativo direi, che gli avvocati imparino a cooperare per l’efficienza del sistema, perché è con la condivisione degli oneri, delle responsabilità che si persegue l’efficienza.
E allora ancora una volta il richiamo di Danovi alla doppia fedeltà, per cui da una parte dovremo essere ancora più rigorosi nella disclosure, nella ricerca della effettiva terzietà e nella competenza professionale e dall’altra dalla forza di queste posizioni collaborare, cooperare per raggiungere la giusta decisione.
In questa fase transitoria dunque, sino a quando l’arbitrato non avrà trovato, come io auspico, un ruolo stabile e accettato nella nostra società (superando i pregiudizi e riuscendo ad essere economicamente sostenibile) io credo che l’avvocatura, gli avvocati chiamati a svolgere il ruolo di arbitro o di avvocati nell’arbitrato, potranno anche essere costretti a comprimere gli onorari per far sì che lo strumento si radichi, collaborando per rendere le procedure più rapide e semplificando, per quanto possibile, la ricerca della decisione.
Concludendo, la riforma da sola non basterà, toccherà a noi renderla davvero operativa e, come sempre, calarla nella realtà della giustizia quotidiana.
Grazie per l’attenzione, spero di non avervi perso tutti.

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